giovedì 20 novembre 2008

Neurocirurxía

Che poi non è esattamente spagnolo, e quella "x" così strana si legge "sh", in un tripudio di sfumature portoghesi e - perché no - napoletane. Ma questa faccenda del gallego (il dialetto/lingua ufficiale di qua) è un altro post.

Ieri ho cominciato la pratica di Neurochirurgia nel mirabolante Hospital Clinico Universitario di Santiago. Non che sapessi cosa fosse la Neurochirurgia.
Avevo un'idea, composta per un terzo dalla consapevolezza che a Napoli questo reparto è come il silenzio (c'è ma non si vede); gli altri due terzi li occupava Derek Shepherd di Grey's Anatomy, con i suoi capelli perfetti e lo sguardo ammiccante durante le sue craniotomie da set di Hollywood.

Qui a Stgo DC il complesso operatorio è un mondo a parte. Mantenuta a una temperatura implacabilmente costante (tale che non senti il sangue scorrere ma sai che lo fa perché il tuo cervello continua a ripeterti porco cazzo sto morendo di freddo) questa comunità autonoma della chirurgia si trova al piano -1, ma - magicamente - dalle finestre arriva la luce del sole. Per entrare devi dimenticare tutto della tua vita precedente: lasci fuori la maglietta con il sudore ascellare, il pantalone stropicciato, le scarpe che ti hanno accompagnato fin lì. Ti danno un divisa, il pijama come lo chiamano loro, e sei pronto per l'uso.

Poi aspetti davanti alle porte finché il chirurgo non arriva e ti dice "Buongiorno. Oggi opereremo uno schwannoma vestibolare".
Tu sorridi perché hai letto quella parola un po' ridicola nei libri, ma non è che ci credessi tanto.
"Scommetto sappiate tutti cos'è quindi non mi soffermo. Benvenuti, e preparatevi a circa nove ore di chirurgia".
A quel punto smetti di sorridere e pensi di essere un po' fottuto. Ma tant'è.
Quello che viene dopo è un cranio trapanato e tutta una serie di piccole magie del bisturi (nonèpossibilechelostianofacendocazzononèpossibile). Nel mentre la signora dorme un sonno senza sogni, scandito come un metronomo da quel cervello che è proprio lì, sotto le pinze, e pulsa la sua storia anche nell'incoscienza.

L'indomani vai in ambulatorio, vedi gente sveglia (o quasi: "Ma come dottore non si ricorda di mio figlio, l'ha operato nel 1979!"). Un paziente scopre che morirà per colpa di quella spruzzata di bianco nella risonanza magnetica, un'altra scopre che è salva e potrà avere dei figli.

Torni a casa e mangi pasta e patate. E poi dormi tutto il pomeriggio, perché stasera, be' stasera è giovedì, e si esce.

giovedì 6 novembre 2008

Stgo DC

Dove hai detto che sei andato a finire, piccolo Mike?

Apri un blog, ti dai un certo tono con le tue frasi altisonanti separate da punti fermi, nomini scogliere sulle quali si infrangono le onde dell'oceano, e nemmeno dici dove sei.
Non ti ricordi dove sei? Guarda fuori dalla finestra.
Piove. Quindi?

Sono a Santiago de Compostela. E potrei anche dire perché questo posto si chiama così, ma non lo farò, tanto c'è Wikipedia.
Santiago de Compostela è in Spagna.
Però, be', non ci sono i tori.
Nemmeno la paella.
Attualmente nemmeno il sole, quindi la parola caliente - che tutti conoscete - qui la si può usare solo per riferirsi alla tipa erasmus della LITUANIA che si tromba un ragazzo prima e dopo i pasti.

Ma Santiago è in Spagna.
Te ne accorgi al mattino, quando scendi di casa alle 10.30 e trovi il netturbino che pulisce le strade e qualche negoziante assonnato che solo allora apre la serranda.
Lo noti quando un ragazzo ti parla male di un locale perché "...chiude presto, alle 4.30!", o quando il tuo coinquilino si alza alle 17.00 e con la voce impastata ti dice hooolaa.
Lo senti nell'aria quando il giovedì sera la strada si riempie di ragazzi con le buste bianche del Carrefour piene di bottiglie, ghiaccio e bicchieri di plastica grandi come vasi da fiori, che adagiano lenti sull'erba del Parco Alameda, nella folla.

La Spagna è qui, la sento tutta quando una chitarra riempie i vicoli nei pressi della Cattedrale e dei suoi tetti, dove mille anni fa i pellegrini arrivavano per bruciare i propri vestiti. Mi scorre dentro quando chiedo a un amico di passarmi un tovagliolo e dico cervatillo invece di servilleta, facendolo squartare dalle risate al pensiero di potermi passare un cerbiatto ("Cervatillo es Bambi, Miguel, que tonto que eres!").

La Spagna è qui e io mi mimetizzo.
Se mi concentro riesco a dire la parola ejercicio - che comporta un raschiamento di gola seguito da ben due sputazzate con la lingua tra i denti - senza dare troppo nell'occhio.
Ho le sopracciglia folte abbastanza.
Un cognome credibile, che mi diverto a pronunciare alla spagnola.
Sono Miguel, pronto a vivere la movida. Mi catapulto nel locale e urlo a tutti hola que taaaal!
(...)
(...)
"Eres italiano, verdad?"
"Sì, pero como..."
"...hombre, se nota!"
E ridono, ridono come solo loro sanno fare.